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Erano secoli fa che il mare frangeva gli scogli spinosi e ritorti in una cittadina lontana. Le case si arrampicavano lungo i faraglioni, che emergevano dall'acqua simili ai denti spezzati di un gigante. Le rive erano squassate dal riverbero dell'acqua, in un rombo sonoro che inghiottiva le grida dei marinai e lo stridio dei gabbiani.
Il mondo, visto da quell'isola dispersa in un oceano immenso, sembrava enorme, sconfinato, abbastanza da inghiottire una piccola figura accovacciata nella coltre di tenebre, avvinghiata alle acque nere, nere come il nulla, come il buio dietro agli occhi, fredde come un mare di solitudine.
Nessuno avrebbe udito il suo segreto, sussurrato contro un velo d'acqua, sospirato come un bacio a quel gigante che lambiva il mondo.
Nessuno avrebbe pensato che quel terribile orco, quella madre crudele, quello specchio insondabile e pieno di misteri avrebbe accolto ogni parola, bevuto del suo dolore. Che l'oceano avrebbe ascoltato, nessuno poteva crederlo.
L'oceano aveva bevuto le sue lacrime, e ora parlava ai suoi occhi.
Le parlò del fondo del mare, che era lontano e gelido, terrificante e solitario, splendido come un castello, scintillante come una gemma segreta.
Le prese la mente, poi il cuore e poi le gambe, le prese tutto, fino alle lacrime, fino al suo male.
La portò con sé nel suo ventre possente, la chiamò sua figlia e sua moglie, il suo Amore.

 

***

Era buio quando Dono aprì gli occhi. Il vento dall’odore salmastro soffiava forte dal mare, fin dentro la sua piccola casa di pietra. Contava il tempo sussurrando parole antiche, lo chiamava verso l’alba più lunga.

Il cielo era come pece, la luna simile a un occhio rotondo e limpido che tingeva ogni angolo d’argento.

Dono si alzò in un fruscìo, e spese qualche istante a guardare il mare. Era stranamente calmo, quella notte, una pericolosa macchia nera che si estendeva nell’orizzonte, e lo faceva sentire osservato, giudicato.

Tu sei mio, sembrava dire, con quella sua voce dura, ricca di contrasti, sei mio perché ti ho creato, mio.

Un passo per volta, misurato, si mosse oltre la porta. Fuori dal piccolo faro di pietra che chiamava casa erano accatastati i suoi doni. Frutta, pesce essiccato, denso sciroppo di zucchero raccolto in barattoli di vetro grezzo, una tunica di lino ricamato finemente con motivi sottilissimi, come le onde tinte d’argento tinte dalla luna. Come capelli.

Si sfilò senza fretta i vestiti e la indossò. Era leggerissima, quasi impalpabile, degna delle centinaia di ore di lavoro impiegate a tesserla in quei lunghi mesi invernali. L’avrebbe accompagnato nelle danze sfrenate in quell’alba che premeva contro l’orizzonte, a malapena trattenuta dalla magia della notte.

Dedicò un ultimo sguardo alla sua casa, immobile e pacifica, rassicurante. La terra sotto i suoi piedi era sempre tiepida come un corpo, gentile come un bacio.

Tu sei mio, mormoravano le foglie degli alberi, il frusciare degli steli d’erba, sei mio perché mi sei stato donato, mio.

Prese la grande torcia deposta con cura sopra alla pila di doni e si prese un momento per osservare, un grande scrigno scintillante appena socchiuso, prima di accenderla e rompere l’oscurità con il suo fuoco crepitante. Poi si lasciò la sua casa alle spalle e iniziò il suo lento cammino verso la spiaggia.

 

Sulla lunga distesa di sabbia scura, incastrata tra le alte rocce, era già radunata una piccola folla. Mormoravano tra di loro, agitati, eccitati, i piedi ben distanti dalle onde che si aggrovigliavano inquiete, arrancavano sulla riva. La terra sembrava fremere piano, produceva una nota sorda, una musica e un lamento, un richiamo e un addio che forse solo Dono poteva sentire.

Si prese un momento per scrutare, mentre era ancora lontano, il gruppo eterogeneo di donne e uomini, anziani e giovanissimi, assiepati attorno alla pira ancora spenta, preparata con attenzione, in attesa.

Quando lo videro arrivare l’eccitazione si fece palpabile, i loro occhi lo scrutavano famelici, impauriti, reverenti. Osservavano la creatura senza tempo e senz’anima, il guardiano distante che scandiva il loro tempo tra i mondi.

Nessuno emetteva un fiato, il silenzio carico d’attesa lo accompagnò fino alla pira. Ora non soffiava un alito di vento. Il mare era immobile, le onde sembravano ritrarsi, la terra stessa tratteneva il respiro.

“Benvenuti nell’ultima notte d’inverno” annunciò, con la sua voce calma, un po’ roca, le prime parole pronunciate in molti mesi che gli raschiavano la gola. Poi, senza attendere oltre, lanciò la torcia nella pila di legno in attesa, che sembrò accoglierla con un grido, divorarla con un sussulto.

Il fuoco divampò immediatamente, come se non potesse più aspettare. Le fiamme ruggirono nella notte, e iniziarono la loro danza. Il vento iniziò ad agitarsi, spazzando la sabbia in un turbine agitato, la luce della luna sembrava incresparsi, le onde si innalzarono sul mare, torcendosi e assumendo forme impossibili, feroci.

Mentre la folla gridava e sospirava, dall’acqua iniziarono ad emergere delle figure. Non erano uomini né donne, Cavalcavano correnti violente e imbizzarrite come cavalieri splendenti, la loro pelle riluceva come l’acqua, capelli scuri sferzavano i loro volti splendidi e inumani.

Come in un sogno quegli esseri arrivarono sul pelo dell’acqua, le loro gambe incerte, come se non sapessero come usarle.

Tutti loro erano il silenzio, non sembravano neanche respirare, e guardavano Dono con occhi spalancati, scuri come le profondità del mare.

Dono si avvicinò all’acqua, un suono martellante come di tamburi che riempiva il suo petto, un rombo lontano che lo spingeva verso il suo compito.

Allungò le mani verso i nuovi venuti, accogliendoli sulla terra.

“Benvenuti nella prima alba d’estate” annunciò. Sentiva i suoi occhi bruciare e la sua pelle incresparsi, un sentimento selvaggio ed estatico che prendeva possesso del suo corpo, i suoi muscoli tesi e frementi, in attesa.

Alle sue parole, con un sussulto, il mare lasciò andare i suoi figli. Le creature fecero risuonare grida di gioia, e con i loro piedi malfermi cominciarono a correre sul lido battuto dalle onde. A quel segnale, anche le persone accanto al fuoco iniziarono ad esultare, e corsero ad abbracciare i nuovi venuti. Il battere dei loro piedi sulla terra creava una musica, un ritmo tribale che squassava l’animo di Dono.
La danza era iniziata.

Il suo corpo iniziò a muoversi, sentendo ciò che nessun altro poteva sentire. Il mare, il vento, la terra, il fuoco, le onde che si infrangevano sugli scogli, le foglie che tremavano sugli alberi, la sabbia che si torceva sotto i suoi piedi.

Era nulla, era una creatura nata per quella danza, per celebrare quella lunga notte.

Attorno a lui sentiva voci, bambini che vociavano, pianti e risate, grida e sussurri innamorati. Sentiva la sua pelle incresparsi e mutare al suono delle onde, dita che lo toccavano, labbra che baciavano le sue mani, ma non vedeva. I suoi occhi erano nelle profondità marine, nelle lucenti caverne sotterranee, il suo cuore era leggero come la spuma delle onde, il suo animo bruciava come lava.

Quella lunga notte era scandita dalla sua danza frenetica, dal battere dei suoi piedi sulla riva. Finché non si fosse fermato le madri avrebbero abbracciato i figli, salutato i compagni, fratelli e sorelle si sarebbero trovati. E il suo corpo si increspava e mutava, era tutti loro e nessuno di loro, un essere, una creatura, un dono, un guardiano, un sacerdote, uno spirito.

L’alba sarebbe stata la fine, e quindi avrebbe danzato finché la luna fosse riuscita a tenere insieme lo scrigno del buio, finché il sole non si fosse forzato in quella realtà sospesa, finché il fuoco fosse bruciato.

 

***

 

Riposava sulla terra scaldata dal sole, la sabbia gli faceva da coperta. Sentiva le onde carezzargli dolcemente i piedi, quel primo giorno d’estate. I suoi occhi non si erano ancora chiusi.

“Molti sono venuti per la loro ultima notte d’inverno” disse una voce poco lontana. Aveva il suono di un’onda gentile, il rombo di un temporale.

“Molti se ne sono andati per la loro ultima estate” rispose, senza guardare il suo interlocutore. Una risata leggera fece eco alle sue parole. Non era una risata calda, aveva un sapore salato come acqua di mare.

“Hai già traghettato le nuove anime nel regno delle profondità” constatò, scegliendo con cura il suono delle sue parole. Quella creatura era capricciosa e stravagante, lontana dalle miserie e i sentimenti umani. Forse persino più di lui.

“È il mio unico compito. Davvero noioso. Non tutti siamo così fortunati da poter ballare fino a non poter star dritti”

Quelle parole erano decisamente più vicine. Dono si mise faticosamente a sedere, puntellando i gomiti sulla sabbia.

Sdraiata tra le onde della riva, col corpo che luceva come una perla nella luce del mattino, c’era una creatura degli abissi. Guardarla negli occhi era come cercare lo sguardo di una corrente, aveva un sorriso enigmatico che sembrava dipinto su un volto senza tempo.

“Non dovresti essere qui, Amore”

“Non dovresti chiamarmi così” rispose lei, sorniona, protendendosi verso di lui “o lo farai arrabbiare. Non con quella tua voce tenera e dolce, piena di promesse…”

“Nessuna promessa” Dono era stanco, senza forze, risponderle stava diventando difficile “Tu sei figlia e signora del Mare, e uso il nome che lui ti ha dato”

“Lui ha scelto anche il tuo nome” la voce di Amore adesso era testa, bramosa, e i suoi occhi enormi lo guardavano fisso “ti ha creato dal nulla, tu prima eri nulla, eri parte di lui, non dimenticare.”

Il vento aveva preso a soffiare. Dono sentiva le nuvole addensarsi sopra di loro, e il mare ricominciava ad agitarsi, chiamando la sua sposa, cercando la sua sirena.

“Mi ha chiamato Dono per donarmi alla Terra. Ora sono suo.” Le disse, con voce ferma, misurata, mentre le onde si alzavano dietro di lei.

“Tu sei mio!” gridò Amore, con una voce vibrante e melodiosa, carica di desiderio “Nato per il mio capriccio, il mio compagno lontano, il mio fratello perduto. Mio!”

I cavalloni si alzavano, urlando, chiamando la loro signora, tirando le briglie che la trascinavano indietro. Lei non si oppose, lasciandosi scivolare nell’acqua, i suoi occhi fissi su di lui, enormi, predatori.

Dono la guardò sparire tra le onde, sapendo che diceva la verità.  

Alcune persone si erano avvicinate alla spiaggia, esitanti. Aspettarono che il mare si fosse calmato, prima di muoversi svelte verso Dono, trascinando dietro di loro una piccola barca di legno molto usurata.

“Non possiamo attendere ancora” disse una donna dall’aria stanca quasi quanto la sua. Dono la guardò negli occhi, riconoscendo la bella creatura emersa per prima dalle onde, la notte prima.

“Certo che no” rispose, tirandosi a piedi a fatica. Uno degli altri lo aiutò a sostenersi, e lo supportò mentre si stendeva nella piccola imbarcazione.

Lo trascinarono velocemente lungo la spiaggia, lanciando occhiate sgomente al mare agitato.

“Non preoccupatevi di lui” sussurrò Dono, fiaccamente, facendoli sussultare “portatemi dalla mia signora”

In pochi minuti arrivarono davanti alla grande pira del giorno prima, davanti alla quale ora era stata scavata una buca profonda, il fondo cosparso di uno spesso strato di cenere ormai fredda. Aiutarono Dono a scendere dalla barca, poi, con molta attenzione, lo fecero scendere dentro la buca.

Sul fondo, in mezzo alla cenere, poteva sentire la terra pulsare, come il battito di un cuore, come un richiamo disperato.

“Sono qui” sussurrò, carezzandola piano “tuo figlio, il tuo compenso, il tuo dono”

Sentì il primo cumulo di sabbia e terra piovergli sulle spalle. I suoi respiri si fecero più veloci, sentiva il cuore stretto da una morsa, ma chiudendo gli occhi sentiva le dita gentili della terra che lo stringevano piano, con delicatezza, con amore. Tra poco ne sarebbe stato ricoperto, e un nuovo ciclo sarebbe iniziato. Una nuova estate fiorita, nuovi figli della terra nati e vissuti protetti dal suo calore.

Mentre la terra lo ricopriva, chiuse gli occhi. Il mare rombava e schiumava, terribile e violento, sempre più lontano.

Tu sei mio.

 E sapeva che era vero.

 

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